Un animale che, soprattutto nel passato, è stato molto utile all’uomo è il cavallo, per il cui verso si usa il verbo nitrire, ovvero emettere nitriti [latino hinnitum, da cui il verbo hinnire ed il parlato * (hin)nitrire’]. In realtà il verso del cavallo è piuttosto complesso, in quanto può assumere diversi significati a seconda sia della tonalità sia della durata del suono emesso.
Quando il cavallo è sereno e si trova a suo agio allora il nitrito è basso e gutturale. Si dice, invece, che il cavallo soffia (dal latino sufflare, soffiare, gonfiare), quando il suono è rauco e di breve durata, tendente ad esprimere un atteggiamento difensivo verso una minaccia o, almeno, un fastidio. Più intenso e duraturo è, invece, lo sbuffo (dall’onomatopeico buffare con prefisso intensivo s-), quando l’animale è più irrequieto. E più elevato ancora è lo schiocco (sempre onomatopeico in quanto imita il rumore di una frusta che vibra nell’aria), che può essere accompagnato da tensione dei muscoli, occhi sbarrati, froge dilatate ed intenso sudore.
In campo letterario per il cavallo viene usato anche il termine ringhiare (dal latino volgare *ringulare, diminutivo di ringi, digrignare i denti, tipico del cane), ad indicare che il cavallo nitrisce fortemente.
Per quanto riguarda il cavaliere si dice che perde le staffe, quando lascia uscire i piedi dai due poggiapiedi metallici pendenti dalla sella, per cui non è più in grado di governare il cavallo: espressione usata in senso estensivo per chiunque perda il controllo delle proprie rezaioni, anche quando non è a cavallo.
Tornando al termine cavallo potremmo fare una breve gita storico archeologica e cogliere l’occasione per rileggere alcuni versi del poeta Orazio.
In terra di Sabina, lasciato l’abitato di Vicovaro, l’antica Varia dei Latini, procedendo verso Licenza, s’incontra un viottolo che porta ai resti della villa di Orazio, il celebre poeta del I secolo a.e.v., il quale dalla natia Venosa (8 dicembre 65), antico centro della Basilicata settentrionale, si trasferì, al seguito del padre, esattore di gabelle, a Roma. Qui, dopo la negativa esperienza con Bruto e Cassio a Filippi, a circa 23 anni riuscì a trovare un lavoro e ad affermarsi come poeta, diventando intimo di Publio Virgilio Marone e, presentato da quest’ultimo, di Mecenate. Questi, appartenente ad una famiglia della nobiltà etrusca, era consigliere dell’imperatore Cesare Augusto e uomo di ottima cultura, per cui raccoglieva intorno a sé, promuovendone l’attività, i maggiori poeti e scrittori del tempo. Fu proprio Mecenate a regalare ad Orazio il podere con la villa in questione, che il poeta, impegnato a Roma, affidò alle cure di un fattore, con il quale le cose non andarono granché bene. Il fattore, infatti, si dimostrava piuttosto scontento della sua situazione e non faceva che lamentarsi ora della pesantezza dei lavori agricoli ora di dover vivere lontano dalla città, in un posto che considerava una steppa, un deserto, senza osterie e luoghi in cui divertirsi e frequentare piacevoli compagnie. E, allora, Orazio, il quale non faceva che pensare al suo podere come ad un posto ameno e piacevole in cui poter vivere sempre, mentre era costretto a rimanere a Roma anche per stare vicino ad un amico appena colpito da una disgrazia, prende, come diremmo noi, carta e penna e scrive, indirizzandola al fattore, una delle Epistole (Libro I, 14). Il poeta, contrapponendo l’insoddisfazione sua a quella del fattore, riflette sulla stoltezza di chi se la prende con i luoghi, mentre la causa dei problemi umani è nell’anima, che mai riesce a sfuggire a se stessa (in culpa est animus, qui se non effugit unquam). La verità è che nessuno è contento del proprio stato ed invidia quello altrui, al punto che, dice il poeta, “optat ephippia bos piger, optat arare caballus” ovvero “il lento bove desidera la sella, il cavallo aspira ad arare”. Quello dell’insoddisfazione umana è un tema caro ad Orazio e lo ritroviamo anche in una delle Satire (Libro I, 1), dove torna la riflessione sul fatto che nessun uomo è soddisfatto di sé e loda, invece, quelli che fanno cose diverse e, magari, schiatta d’invidia perché la capretta di un altro ha le mammelle più gonfie. L’uomo si guarda bene dal paragonarsi con la folla più grande dei più poveri e, mentre si affanna a superare questo e quello, viene sempre intralciato da uno più ricco, così, come dice il poeta con bella immagine:
“..., cum carceribus missos rapit ungula currus, instat equis auriga suos vincentibus, illum praeteritum temnens extremos inter euntem. »
[quando lo zoccolo (ungula, ovvero il cavallo) trascina via i carri usciti dalle gabbie, / l’auriga incalza i cavalli (equis) che precedono i suoi, / disdegnando quello sorpassato che viene (ormai) tra gli ultimi.]
Negli ultimi versi torna il termine ‘cavallo’, ma, questa volta, Orazio non usa la parola caballum, bensì equum. Infatti, per i Latini equus (al femminile equa) era il cavallo in genere, ma più specificamente lo stallone e quello adibito alle attività più nobili come la corsa e la guerra, per cui da equus si generò il termine eques, il cavaliere, inteso come soldato a cavallo e come appartenente al (ricco) ordine equestre. Caballus (femminile caballa), invece, era il cavallo adibito ai lavori ordinari ed anche il cavallo di poco pregio, quello che noi chiamiamo rozza o ronzino e che trova un termine quasi identico e con lo stesso significato nel greco tardo kaballes, mentre il cavallo in genere o destriero era indicato dai Greci con ippos.
E così già dal II secolo a.C. il popolo, che aveva più facilmente a che fare con i cavalli da lavoro, dette la preferenza al termine caballus che si affermò nell’uso e che è stato ereditato in italiano, ma anche nel francese cheval, nello spagnolo caballo e nel portoghese cavallo.
Ed il termine cavallo è stato molto prolifico sia nel latino volgare sia nella nostra lingua, generando parecchi termini, per lo più legati all’utilizzo dell’animale, quali cavalcare, cavalcata, cavaliere, tramite il provenzale cavalier, cavalleria, cavallerizzo dallo spagnolo caballerizo, e così via, termini a volte estesi anche ad altri contesti, come cavaliere e cavalleria, oppure usati per indicare cose diverse come la cavalletta, animale che stride o zilla (zirla) cosiddetto probabilmente per via dei salti che fa, e come il cavalletto, per la forma dell’arnese di legno che ricorda quella di un cavallo (da lavoro).
Il caballus, in quanto animale da lavoro, spesso veniva castrato per renderlo più mansueto. A tal proposito la lingua latina aveva anche un termine specifico che indicava il cavallo castrato e cioè cantherium forse derivante dal greco kanthélios indicante l’asino da soma. Ma cantherium aveva anche il senso figurato di pali con travicelli trasversali idonei a sostenere qualcosa e, quindi, cavalletto da sostegno, significato che si ritrova in un latino medievale canterium e nella seconda metà del secolo XIX nel termine cantiere che indicò dapprima un legno lungo per sostenere tavolati, successivamente la struttura su cui poggiano le navi in costruzione o in riparazione e, infine, il luogo stesso dove le navi si costruiscono o si riparano, quello che noi oggi chiamiamo cantiere, riferito genericamente al luogo ed agli impianti dove si svolgono lavori di costruzione o di riparazione di vario genere: cantiere navale, aeronautico, edile.
Equus, che nella nostra lingua non ha avuto esiti diretti, è stato, invece, utilizzato per la formazione di alcune parole dotte come equestre, equitazione, equino.
Ippos, a sua volta, come tanti altri termini greci, è stato utilizzato per la formazione di parole composte come ippodromo (in unione con drómos, luogo per la corsa), ippopotamo (in unione con potamós, fiume) animale il cui verso assomiglia al nitrito del cavallo, ippocastano (in unione con kástanon, castagna), pianta arborea che ha tratto il nome dalla supposta qualità dei suoi frutti (simili alle castagne ma per l’uomo non commestibili) di curare le malattie dei cavalli, in particolare se affetti da tosse. E così via.
Ma, al cavallo, proprio perché è stato così importante per l’uomo nel lavoro, nelle attività sportive, nella guerra, sono stati assegnati molteplici nomi che rispecchiano specifici utilizzi o caratteristiche. Così, quando il cavallo è destinato alla riproduzione, lo si chiama stallone, se maschio, e fattrice, se femmina. Stallone viene dal francone *stallo, cavallo da riproduzione, che pertanto veniva tenuto nella stalla (dal gotico *stalla, nel senso di dimora, sosta) e fattrice dal tardo latino factricem dal verbo facere, fare.
Se destinato alla battaglia o al torneo, il suo nome è destriero, sembra perché lo scudiero lo teneva con la mano destra, mentre infilato nel braccio sinistro portava lo scudo (latino scutum, di probabile origine indoeuropea da una radice *SKA / *SKU che significa coprire). Con il termine scudo in passato è stata indicata anche una moneta, per il fatto che su di essa era effigiato uno stemma a forma di scudo del principe o dello stato emittente. E da scutum è venuto il tardo latino scutarium, armato di scudo, da cui il provenzale escudier e, quindi, il nostro scudiero, ovvero il valletto d’armi, aspirante cavaliere, che portava lo scudo di quest’ultimo e, come abbiamo visto, teneva con la destra il suo cavallo. E da scud(i)ero si ha scuderia, dapprima edificio per alloggiare gli scudieri, poi per il ricovero e l’allevamento di cavalli e, infine, anche complesso di cavalli (da corsa) appartenenti allo stesso proprietario e, in automobilismo, complesso di automobili da corsa di una stessa casa.
Il cavallo di buona qualità da utilizzare anche per i viaggi è un palafreno, dal provenzale palafren, a sua volta dal tardo latino paraveredum (cavallo da posta o viaggio) accostato a freno (dal latino frenum, morso, briglia). Il morso, ovvero la parte metallica della briglia posta nella bocca dell’animale (che, quindi, la morde), è stato il primo tipo di freno ideato dall’uomo e ciò spiega il significato di alcune locuzioni, ancora oggi utilizzate, come mordere il freno (in latino frenos mordere) o rodere il freno, nel senso di essere insofferenti a qualcosa. Ed ancora allentare o stringere i freni, a freno sciolto (che vale come a briglia sciolta), tenere a freno e così via.
Il cavallo di poco pregio è, invece, un ronzino, dal francese antico roncin, probabilmente da rozza, termine d’origine germanica indicante, appunto, un cavallo di scarso valore. Lo spagnolo usa il termine rocin, da cui Rocinante (in italiano Ronzinante) nome del cavallo di Don Chisciotte, vecchio e malridotto, ma sempre pronto ai richiami del suo padrone. Per i cavalli di poco conto si usano anche i termini brenna, dal francese antico braine (cavalla sterile), e brocco, dal latino broccum, ovvero sporgente (riferito ai denti), probabilmente perché i denti in fuori nei cavalli sono un sintomo di vecchiaia: è noto, infatti, che l’esame della dentatura del cavallo consente di stabilirne l’età e, quindi, il valore. Da qui nasce il detto a caval donato non si guarda in bocca a significare che non si deve mai criticare un dono.
E per finire i cavalli piccoli, di età o di dimensione, per i quali si è ricorsi al termine latino pullum, che indicava il piccolo di ogni animale, e dal quale, oltre a pullicenum, da cui pulcino, sono derivati i seguenti termini del latino parlato:
pulletrum, da cui l’italiano puledro,
pullanum, da cui il francese poulain, per puledro, dal cui diminutivo poulenet è derivato lo scozzese powney, da cui l’inglese, usato anche nella nostra lingua, pony, ad indicare il cavallo piccolo e dal lungo pelo originario, appunto, della Scozia e dell’Irlanda.
Nei confronti del cavallo, anche quando è adibito a lavori pesanti e magari castrato, l’asino ed il mulo, bardotto compreso, escono perdenti, per il loro aspetto fisico meno accattivante, per la loro testardaggine e per la minore intelligenza, tanto che sono diventati simbolo non solo della testardaggine ma anche della insensibilità il mulo e dell’ ignoranza l’asino. Invero sono stati animali estremamente importanti per l’uomo nell’economia contadina.
Oggi diremmo che l’asino presentava un ottimo rapporto costi benefici, in quanto il suo fisico aveva minori esigenze alimentari rispetto al cavallo a fronte, invece, di un ottimo rendimento nel lavoro. Ed il mulo era sì ostinato ma nel contempo estremamente robusto e resistente e completamente affidabile nei sentieri di montagna dimostrando piena sicurezza nel piede.
L’ asino, latino asinum, termine preindoeuropeo, emette il tipico verso stridulo con alternanza di suoni alti e bassi, il raglio, dal verbo ragliare (latino parlato *ragulare iterativo del tardo latino ragere, di probabile origine onomatopeica, indicante una emissione di suoni non umani). Ed all’asino sono stati riservati altri due nomi: ciuco e somaro. Il primo è un termine espressivo ormai in disuso anche nel significato traslato di ignorante. Si tratta forse di voce onomatopeica, come detto, d’uso sempre meno frequente, mentre di questi tempi è facile sentir parlare di inciucio, che è tutt’altra cosa, ovvero l’accordo arrangiato più vicino al pateracchio che al compromesso, dal termine dialettale napoletano ‘nciucià (parlottare segretamente). Pateracchio o pataracchio, d’origine toscana, è l’accordo amichevole ma un po’ equivoco che sa quasi d’imbroglio. Sembra sia un’alterazione di pataffio, forma popolare di epitaffio. Quest’ultimo, a sua volta, viene dal latino epitaphium, dal greco epitáphios da epí, (sopra) e táphos, (tomba). Presso i Greci era l’elogio o commemorazione funebre degli eroi della patria ed anche l’iscrizione su una tomba. Oggi non s’usa quasi più se non in senso scherzoso ad indicare un discorso prolisso e retorico; nella forma pataffio si accentua il significato spregiativo. Il secondo termine, somaro, lascia subito intendere i compiti svolti dall’animale: infatti, somaro viene dal latino parlato *saumarium per il tardo latino sagmarium, ovvero bestia da soma in quanto derivante da sagmam - latino parlato *saumam - a sua volta dal greco sàgma, tutti con il significato di carico, bestia da soma. Inoltre *saumam dal significato di carico è passato anche a quello di cadavere, dando origine alla nostra salma. Per quanto riguarda il basto, la bardatura per trasportare il carico, sembra dobbiamo rifarci al verbo greco bastàzein, che significava sostenere, portare un peso, da cui il latino parlato *bastare ed il suo denominativo bastum. Il moderno significato di bastare come essere sufficiente scaturisce, secondo il Devoto, da basto nel senso di corrispondere alla quantità di carico sopportabile dal basto. In via parallela a bastum, sempre da *bastare, è venuto il latino parlato *bastonem, nel senso di sostegno, da cui il nostro bastone
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E veniamo al mulo (latino mulum di origine preindoeuropea), il quale pure raglia, e, come è noto, deriva dall’accoppiamento di un asino con una cavalla, mentre il bardotto (francese bardot, asino, muletto) deriva dall’accoppiamento di un cavallo con un’asina. Ambedue, come la maggior parte degli animali generati da specie, razze o varietà diverse (ibridi), sono sterili. Mulo, in quanto animale da soma, ha figliato muletto, il carrello elevatore, e, in quanto frutto di un incrocio, il mulatto, chi è nato da persone di due gruppi etnici, uno bianco ed uno nero. Il triestino mulo/a, ragazzo/a, troverebbe, invece, la sua origine nella natura per così dire ambigua di un adolescente, che non è più bambino ma non è ancora uomo.