Il piccolo roditore dal muso appuntito gli antichi Romani lo chiamavano mus (muris): poteva essere rusticum , ovvero topo di campagna, o urbanum, ovvero topo di città. Ce ne parla Orazio nella sesta satira del libro II: il poeta ha ricevuto in dono, in terra di Sabina, dal suo amico Mecenate un piccolo podere e nell’elogiare la serena e tranquilla vita campestre, sufficiente per essere felici, racconta la seguente parabola: Olim rusticus urbanum murem mus paupere fertur accepisse cavo. Si narra che un giorno un topo di campagna ospitò un topo di città nella sua povera casa.
Naturalmente il cittadino schifò sia il luogo sia il cibo offertogli e convinse il campagnolo a seguirlo in città, dove avrebbe potuto trascorrere la vita, tanto breve, beato in mezzo ai piaceri. Si fermarono in un ricco palazzo con avanzi succulenti di un banchetto. Ma sul più bello, mentre il campagnolo si rallegrava della sorte mutata e delle squisitezze che stava gustando, l’alto palazzo rimbombò dei latrati di cani molossi (alta domus Molossis personuit canis). Questa vita non fa per me, disse impaurito e tremante il topo di campagna, mentre fuggivano:il bosco e la tana sicura dalle insidie mi consoleranno con le frugali vecce.
Famoso è anche il topo partorito dalla montagna, di cui ci parla Fedro (libro IV, 24):
Mons parturibat, gemitus immanes ciens Eratque in terris maxima expectatio.
At ille murem peperit. Hoc scriptum est tibi, Qui, magna cum minaris, extricas nihil.
Una montagna stava per partorire, emettendo gemiti mostruosi ed in tutte le terre l’attesa era enorme. Ma quella partorì un topolino. Questo è scritto per te, che annunci con baldanza grandi cose, ma non concludi nulla.
Tra gli altri topi c’era anche il Ponticus mus, topo del Ponto, con cui i Romani sembra indicassero l’ermellino, il mustelide dalla pelliccia pregiata, bruna d’estate e candida d’inverno, mentre noi, attraverso alcuni dialetti settentrionali, ne abbiamo tratto il termine pantegana, ovvero il grosso topo di fogna.
Ma lasciamo il mus, che, attraverso il suo diminutivo musculum indicava per i Romani ed indica per noi il muscolo, in quanto le contrazioni dei muscoli sotto la pelle ricordano il guizzare dei topi.
E veniamo al sorcio, che abbiamo tratto dal latino soricem, altra denominazione del topo. Sorcio, termine che noi incontriamo più facilmente nell’uso dialettale o, comunque, regionale, è stato utilizzato nel tempo con diverse grafie come sorice, sorico , sorco, sorgo. Iacopone da Todi, morto nel 1306, parlando, nella laude 53, della protezione del cibo dai topi, lo usa nella forma plurale surci:
Aio un canestrello appiso che dai surci non sia offiso.
Dante, Inferno XXII, 58, lo chiama sorco, secondo l’uso toscano:
Tra le male gatte era venuto ‘l sorco
nel senso di cadere nelle mani dei propri nemici. Venendo a tempi recenti, Carlo Emilio Gadda nel Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, descrivendo come vengono conservati alcuni alimenti, si esprime così:
E pecorino, in d’un credenzone, e li fiaschi dell’ojò: mah...chiusi a spranga che neanche i sorchi.
Ma Giuseppe Gioacchino Belli, nel sonetto 106, li chiama sorci: prima che Papa Leone XII morisse, dice il poeta, tutti ne parlavano bene e approvavano quello che faceva e diceva
Ma appena che ccrepò, tutt’in un tratto Addiventò cquer Papa bbenedetto
un zomaro, un vorpone, un cazzomatto (uomo da nulla). E accusì jj’è successo ar poveretto,
Come li sorci cuann’è mmorto er gatto
Je fanno su la panza un minuetto.
E Trilussa, rivisitando la favola “ er sorcio de città e er sorcio de campagna”, racconta che er sorcio de campagna, giunto in città, intravvide ‘na trappola anniscosta’ per cui chiese ar sorcio de città
nun ce sarà pericolo che poi....
- Macché, nun c’è paura:
- j’arispose l’amico - qui da noi
ce l’hanno messe pe’ cojonatura. In campagna, capisco, nun se scappa, ché se piji un pochetto de farina ciai la tajola pronta che t’acchiappa;
ma qui, se rubi, non avrai rimproveri. Le trappole so’ fatte pe’ li micchi (sciocchi) ce vanno drento li sorcetti poveri, mica ce vanno li sorcetti ricchi!
Nel dialetto romanesco, e non solo, i sorci sono entrati anche nei proverbi:
Quando er gatto nun c’è li sorci ballano, che ricorda il minuetto sulla panza del gatto morto.
Fà la fine der sorcio, farsi prendere in trappola.
Acchiappà cor sorcio in bocca, sorprendere sul fatto. Trilussa ne parla nel sonetto L’Adulterio: una donna sposata sta con il suo amante, quando, mandata dal marito, arriva la polizia, con conseguente scena di panico, descritta dall’amante:
Fra lei che se strappava li capelli e io che nun trovavo li calzoni.. Che momenti teribbili so’ quelli.
ma riescono a ricomporsi prima dell’ingresso della polizia ed in questura, racconta sempre l’amante,
..... nun ciagnede male
pe’ via che nun ce còrsero in fragrante, ma er fatto venne messo sur giornale. Diceva chiaramente: “ La scenata
de la moje infedele co’ l’amante, presa cor sorcio in bocca in via Privata!”
E tra i proverbi toscani: gatto che non è goloso non piglia mai sorcio, a dire che qualsiasi azione è sempre spronata dall’interesse. E l’interesse del gatto nei confronti del sorcio ce lo descrive bene, nelle prediche volgari, S. Bernardino da Siena (1380-1444):
La gatta si pone a uno bucarello là dove debba uscire il sorcio, e staravi tutto il dì per giugnerlo, e come è per uscire fuore, e ella il ciuffa.
C’è poi il contestato modo di dire Far verdere i sorci verdi. Alcuni anni fa un politico ha usato l’espressione “vedranno i sorci verdi” nei confronti di avversari politici. Naturalmente fu subito polemica, sostenendosi l’appartenenza dei sorci verdi all’ideologia fascista. In effetti i sorci verdi furono assunti come emblema dipinto sulle fusoliere dei tre S79 da cui era composta la squadriglia aeronautica Biseo, la quale divenne famosa, divulgando in conseguenza anche i sorci verdi, quando conquistò i primi tre posti nella gara Istres-Damasco (agosto 1937) e, soprattutto, dopo il volo Guidonia-Dakar-Rio de Janeiro (gennaio 1938). E naturalmente il regime fascista se ne fece un vanto.
Ma abbandoniamo l’agone politico, che qui non interessa, e torniamo al nostro modo di dire che si dà il caso sia antecedente all’utilizzo fattone dalla squadriglia Biseo, in quanto ha origine nel romanesco “ Fà vedé li sorci verdi”, che significa sbalordire, stupire con azioni o imprese fuori dal comune ed, in senso estensivo, mettere qualcuno in difficoltào dover affrontare una situazione complicata.
Li sorci verdi, che non esistono, fanno il paio con la mosca bianca, che parimenti non esiste, per cui “esse ‘na mosca bianca” vuol dire essere una persona con doti eccezionali.
Niente a che vedere con la comune mosca ha, naturalmente, la mosca bianca parassita delle piante chiamata, per il suo aspetto, anche farfallina bianca (delle piante).
Esistono, invece, anche se rare, le pecore nere, che, nei processi di produzione della lana vengono trattate in maniera separata o del tutto escluse dalla tosatura. Il significato negativo di pecora nera riferito, ad esempio, al membro di una famiglia, che ha preso una cattiva strada è connesso anche allo stesso colore nero, che evoca, per lo più, aspetti negativi: bestia nera, borsa nera, cronaca nera, magia nera, lavoro nero, contabilità nera e così via.
Anche se il sorcio non è amato dai poeti, lo troviamo in una poesia di Eugenio Montale, risalente al 1940, l’anno della entrata in guerra dell’Italia, poesia in cui il poeta descrive un temporale rivierasco che fa pensare a tempi bellicosi, in cui anche il sorcio è in pericolo e fugge o è scacciato persino dai rifugi più sicuri:
Lungomare
Il soffio cresce, il buio è rotto a squarci, e l’ombra che tu mandi sulla fragile palizzata s’arriccia. Troppo tardi
se vuoi esser te stessa! Dalla palma tonfa il sorcio, il baleno è sulla miccia, sui lunghissimi cigli del tuo sguardo. https://pensierisottili.hashnode.dev/etimologia-il-sorcio