A spasso tra profumi e rifiuti
La Vita e le Opere di Marziale a Roma: Epigrammi, Personaggi, e l'Imperatore Tito
Siamo a Roma, nell’anno 80 e l’imperatore Tito fa organizzare i giochi inaugurali dell’Anfiteatro Flavio (il Colosseo), completato nel 79.
A Roma si trova anche il poeta Marco Valerio Marziale, il quale da oltre 15 anni ha lasciato la nativa Bilbilis, in Spagna. E Marziale per l’occasione pubblica il Liber spectaculorum, trentatré epigrammi nei quali descrive i giochi offerti da Tito al popolo. In questi epigrammi traspare un atteggiamento adulatorio nei confronti dell’imperatore, il quale li apprezzò a tal punto da conferire al poeta il diritto dei tre figli (Ius trium liberorum), che garantiva una serie di privilegi, anche fiscali, ai cittadini che avessero almeno tre figli, ma che poteva pure essere concesso per particolari meriti in via speciale dall’imperatore, come nel caso di Marziale, il quale non era neppure sposato.
Seguiranno altri 14 libri di epigrammi, nei quali Marziale si dimostra un attento osservatore della vita reale di Roma, che dipinge con spregiudicatezza. E con cruda realtà Marziale descrive le vittime dei suoi attacchi feroci e sarcastici, anche se, a modo suo, fu corretto o forse semplicemente prudente, usando nomi fittizi o non completi così che non si potessero riconoscere palesemente le persone prese di mira.
Tra queste ce n’è una ripetutamente attaccata da Marziale. E’ Gellia, moglie di un certo Pannico, la quale già nell’epigramma 39 del primo libro (intorno all’anno 85) è oggetto di sarcasmo da parte di Marziale, perché Gellia, che ha appena perso il padre, quando è sola, dice il poeta, non piange (non flet cum sola est Gellia), ma, se è presente qualcuno, allora le lacrime sgorgano a comando (si quis adest iussae prosiliunt lacrimae). Non è in lutto, continua Marziale, chi cerca di essere lodato (non luget quisquis laudari, Gellia, quaerit), prova veramente dolore chi soffre senza testimoni (ille dolet vere qui sine teste dolet).
Passa il tempo ma Marziale non la molla. A Roma è forse una bella giornata d’estate, quando Gellia, desiderosa di essere ammirata come se fosse ancora una ragazza, se ne va a spasso ben cosparsa di profumi, ma ha la sfortuna d’incontrare proprio Marziale, il quale non si fa sfuggire l’occasione e, rivolto a Gellia, dice (libro III, 55):
“Sembra che dove tu cammini si stia trasferendo Cosmo e che da una boccetta ben agitata fluisca il cinnamomo (la cannella)” (Quod, quacunque venis, Cosmum migrare putamus et fluere excusso cinnama fusa vitro). E prosegue: “ Gellia non essere compiaciuta di queste frivolezze straniere; tu lo sai, io credo, che in tal modo (con tanti profumi) anche il mio cane manderebbe un buon odore” (Nolo peregrinis placeas tibi, Gellia, nugis, Scis, puto, posse meum sic bene olere canem).
L’epigramma risulta chiaro, ma che cosa c’entra il riferimento a Cosmo? Chi era costui? Ebbene, Cosmus era un noto profumiere dell’epoca, il cui nome fa subito pensare al verbo greco kosméo, tra i cui significati c’è anche quello di adornare, abbellire.
Ma andiamo con ordine e cominciamo a parlare di due termini, Kósmos e Mundus, il primo greco il secondo latino, che esprimono ambedue il concetto di ordine e, in particolare, quello di ordine cosmico ovvero l’universo, il mondo e dai quali sono derivati, nella nostra lingua, cosmo e mondo.
In Grecia il concetto di ordine ha generato anche quello di eleganza e di ornamento tanto che kosmetiké téchne indicò l’arte di ordinare ed adornare il corpo e, quindi, di abbellirlo, in definitiva quello che noi chiamiamo cosmetica o cosmesi, tutto ciò che attiene all’igiene ed alla cura estetica della persona.
Anche i Romani importarono il termine greco chiamando cosmetes gli schiavi addetti alla toeletta ed al guardaroba. Invece, per indicare l’acconciatura e gli oggetti da toeletta, i Romani usarono il sostantivo mundum, con il quale, facendo un calco del greco cosmos, indicarono anche ciò che è ordinato e, quindi, come abbia già visto, l’ordine cosmico, i corpi celesti, il mondo appunto.
Ma il latino aveva anche un aggettivo mundum con il significato sia di pulito, netto, sia di elegante, raffinato e, pur essendo dubbio il collegamento tra il sostantivo e l’aggettivo, resta il fatto che in ambedue coesiste il concetto di ornamento, eleganza. E dall’aggetivo mundum derivò il termine munditia che indicava sia eleganza e leggiadria sia pulizia e nettezza. Conseguentemente immunditia (da immundus, mundus col prefisso negativo in-) indicò il contrario di munditia e, quindi, la sporcizia. In italiano abbiamo eredidato sia mondezza, nel senso di purezza ad esempio di pensieri, di parole, sia immondezza (o immondizia), ovvero la sporcizia, il sudiciume. Ma allora, perché nel linguaggio colloquiale soprattutto regionale per indicare la spazzatura si usa il termine mondezza (in romanesco monnézza) ? Vi possono essere due spiegazioni. Secondo la prima, mondezza, nel senso di sporcizia, deriverebbe da immondezza per aferesi (soppressione o caduta del prefisso iniziale -in). Secondo l’altra spiegazione, nel tempo il termine mondezza fu usato anche per indicare ciò che si porta via per fare pulizia e, quindi, la sporcizia, la quale, a questo punto, si porta nel mondezzaio (in romanesco monnezzaro), che è appunto il luogo dove finisce la spazzatura (discarica). Per vero, a Roma, monnezzaro indica anche la persona addetta alla raccolta dei rifiuti o scopino, quello che in italiano si diceva netturbino ed oggi si dice operatore ecologico. Netturbino è formato da nettare, pulire, e urbem, città, ed entrò nell’uso, negli anni quaranta del secolo scorso, come derivazione di Netturbe, società appaltatrice del sevizio di ritiro dei rifiuti urbani della città di Palermo. Nettare viene da netto dal latino nitidum, nitido, splendente, a sua volta derivato del verbo nitere, splendere, esser lustro, che ha generato anche netto, nel senso di senza macchia, pulito, che unito al sostantivo peso significa senza tara, in contrapposizione a peso lordo ovvero sporco perché con la tara (dall’arabo parlato tarah, detrazione). La tara nel senso di difetto, malattia ereditaria, viene dal significato traslato di mancanza, difetto del sostantivo francese tare.
E così, partendo dai termini cosmos e mundum siamo arrivati da un lato agli ornamenti ed ai profumi e dall’altro alla mondezza, la quale pure ha un suo profumo anche se non proprio gradevole.
E qui potremmo finire. Ma, volendo fare un pezzetto di strada ancora, possiamo dire che da mundum, inteso come ciò che è pulito, netto, è derivato il tardo latino mundare che valeva sia pulire sia purificare e da questo l’italiano mondare, che ha mantenuto il significato di purificare e quello specifico di liberare qualcosa da elementi nocivi o inutilizzabili, come avviene, ad esempio, con il riso e con la castagna.
Qui si aprono due strade regionali: una del nord che dal termine monda, il pulire le risaie, portò, con il suffisso di professione –ina, alla mondina, ovvero all’operaia addetta, appunto, alla pulizia delle risaie; l’altra toscana dove castagna monda indicava la castagna privata della buccia e lessata, che pure diventò mondina, avendo perso per strada il termine castagna ed assunto il suffisso diminutivo –ina.
Nello stesso tempo Mundus, inteso come mondo, terra ha finito per assumere il concetto di “contesto terrestre” ed ancora, a seguito anche dell’uso in senso collettivo fattone in Francia (tout le monde, tutti, le grand monde, il gran mondo) quello di “contesto umano” e l’aggettivo mondano, dal latino mundanum, ciò che è relativo al mondo, è andato sempre più assumendo il significato di persona che, appartenendo ad una classe sociale benestante, fa vita di società ed, in contrapposizione ai valori eterni dello spirito, è dedito ai piaceri terreni di soddisfazione dei sensi. Ma quando a far vita mondana è una donna le cose possono andare un po’ diversamente: se, infatti, essere mondani significa in generale fare vita galante o di società, essere una mondana ha finito per assumere nell’uso comune anche il significato di essere una prostituta.
E Gellia, la moglie di Pannico? Marziale seguita a prenderla di mira, come quando (libro IV, 20) l’attacca insieme ad una non meglio nota Cerellia, perché “dicit se vetula, cum sit Caerellia pupa” (si dice vecchierella Cerellia, mentre è una ragazzina), “pupam se dicit Gellia, cum sit anus” (si dice ragazzina Gellia, ma non è che una vecchia). E rivolto ad un certo Collino, vincitore dei giochi capitolini nell’86, aggiunge “ Ferre nec hanc possis, possis, Colline, nec illam: altera ridicula est, altera putidula” (questa non si può sopportare, Collino, e non si può sopportare neanche quella; una è ridicola, l’altra è disgustosa).